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Delitto e castigo: uccidere per rinascere

  • Writer: matapiazza001
    matapiazza001
  • Apr 4, 2021
  • 6 min read

Perché doveva vivere? Quale scopo proporsi? Vivere per esistere? Mille volte, negli anni passati, per un'idea, per una speranza, anche per un capriccio, la sua esistenza l'avrebbe data senza discutere. Della pura e semplice esistenza egli aveva sempre fatto poco caso, aveva sempre voluto di più. Forse soltanto per la forza dei suoi desideri egli si era allora stimato un uomo che avesse più diritti degli altri.

È sabato sera. Mi accingo a completare un compito quanto mai arduo: quello di racchiudere in un piccolo post il macrocosmo di Delitto e castigo. Dostoevskij sembra aver toccato proprio qualsiasi argomento: vita, morte, solitudine, disperazione, colpa, espiazione, amore, follia, spiritualità; il tutto condito con una buona dose di sarcasmo e formidabile introspezione. Sì, perché a parlare il più delle volte sono proprio i pensieri dei personaggi, le loro paure e i loro desideri, in particolare quelli del protagonista, Raskòlnikov. Egli è senza dubbio una delle figure più controverse e affascinanti che mi sia mai capitato di leggere, un ex studente espulso dall'università che si trascina annoiato in un'esistenza vuota e senza meta. Quando viene a sapere da una concitata lettera della madre che la sorella Dùnja sta per sposarsi con un uomo di dubbio valore, in larga parte in modo da poter continuare a finanziare gli studi del fratello, Raskòlnikov sembra finalmente riemergere dal lungo torpore in cui si trovava. Non riesce ad accettare un sacrificio simile, l'idea che la sua sorellina debba compiere uno sforzo tanto grande per lui, individuo miserabile, che vive alla giornata, senza un obiettivo preciso. Non riesce a scendere a patti con l'amore e la dedizione che la sua famiglia prova nei suoi confronti; amore con cui Raskòlnikov dovrà fare i conti durante tutta la sua vita e che lo lascerà spaesato in diverse occasioni. Quanto può essere difficile accettare di essere amati, rendersi conto che non siamo soli, quando ci si sente inutili, insensati, abbietti? Quanto disperatamente si può arrivare a bramare la solitudine, a scacciare le persone a noi vicine, per ricordare a noi stessi che non meritiamo tutto quell'affetto? Raskòlnikov attraversa esattamente queste fasi. Decide che non può permettere che Dùnja si immoli per aiutarlo, non può continuare a vivere nell'ombra, vuole spiccare, emergere dal fango in cui era scivolato.

E sceglie l'omicidio per farlo.

Ma egli non si sentiva ancora in grado di risolvere questa questione: è la malattia che genera il delitto, o il delitto stesso, in certo qual modo per la sua speciale natura, s'accompagna sempre a qualcosa che somiglia a una malattia?

La vittima scelta dal giovane è una vecchia strozzina. Il piano è semplice: uccidere la donna, rubare il suo denaro e uscire senza destare sospetti. Raskòlnikov crede di poter prevedere ogni mossa, ma la vita è ben più difficile di così, e il ragazzo non solo si trova costretto ad uccidere anche la figlia dell'usuraia, entrata in casa proprio durante il delitto, ma all'ultimo momento non se la sente di prendere i gioielli con sé e li abbandona in un luogo nascosto. Quindi, il movente apparentemente principale, il denaro, viene subito messo da parte da Raskòlnikov: l'omicidio sembrava essere stato architettato proprio per riempire le proprie finanze ed evitare che Dùnja fosse costretta a intraprendere la strada del matrimonio per aiutare la propria posizione sociale, eppure sul momento il ragazzo non è abbastanza forte e non riesce ad appropriarsi del tesoro della vecchia. La debolezza d'animo del protagonista sarà l'unico vero peccato che sentirà di portare con sé, perché il gesto compiuto, l'aver tolto la vita a due persone, non verrà mai considerato come un crimine terribile. Raskòlnikov sente infatti di non aver assassinato due personalità importanti e giuste; al contrario le vittime vengono definite da lui "pidocchi", esseri malvagi che facevano solamente del male alle altre persone. Uccidendole, Raskòlnikov prova il brivido di affermare la propria esistenza; l'omicidio diventa un modo per urlare al mondo che si esiste e che si è forti, tanto forti da poter addirittura decidere quando e come mettere fine all'esistenza degli altri. Una vita per un'altra vita, l'ipostasi del mors tua vita mea. Da una parte sente di aver commesso un atto addirittura lodevole, perché come già sottolineato le donne da lui uccise erano a suo avviso nocive, dall'altra attraverso questo delitto Raskòlnikov sente di poter finalmente prendere in mano le redini della propria vita; non ha bisogno dei sacrifici della propria famiglia, perché è forte abbastanza da gestirsi da solo.

Peccato che non lo è. Raskòlnikov è tutto fuorché forte, è un animo complessato, intimorito, astuto, certo, ma soprattutto tormentato. Se il paragone non fosse un po' azzardato, lo si potrebbe comparare a Zeno Cosini, un "inetto", incapace di vivere la propria vita come una persona normale, di sentire e comportarsi come gli altri. Ed è talmente puro, in fondo, che le ripercussioni psicologiche di questo crimine non tardano a farsi sentire, gettando il giovane in un terribile delirio che durerà giorni e giorni, il proprio personale castigo per il peccato commesso.

"[...]dove ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, dice o pensa che se gli toccasse vivere su un'alta cima, su una roccia, o su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare solamente i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero degli abissi, l'oscurità eterna, un'eterna solitudine e un'eterna tempesta - e dovesse rimaner così, in un arscin di spazio, per tutta la vita, per mille anni, in eterno - preferirebbe vivere in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere!... che verità! Che verità!, Signore! È vile l'uomo!... Ed è vile chi per questo lo chiama vile"


Da ogni pagina di questo capolavoro trasuda la forza del senso di sopravvivenza. Non importa come l'uomo debba vivere, se nella miseria più totale, in povertà o sotto il peso di un orribile senso di colpa: egli sceglierà di vivere sempre e comunque. L'essere umano rifugge la morte come se fosse la sua più acerrima nemica, essa è scritta nel suo destino eppure egli vi si allontana il più possibile, anche se l'esistenza che gli rimane non gli dà alcun conforto. E Raskòlnikov prova questa sensazione sulla propria pelle e suo malgrado: alla fine del romanzo lo troviamo a domandarsi perché non si sia suicidato, perché non abbia scelto la morte piuttosto che la vita di privazioni e follia che gli resta.

Intendiamoci: Delitto e castigo non è un romanzo pessimista. È un'opera dura, cruda, densa di riflessioni profonde e personali, ma si chiude con una nota positiva, il raggio di speranza che si traduce nella vera essenza della vita dell'uomo, ciò che dà senso a ogni dolore e sofferenza: l'amore. Esatto, proprio quello che Raskòlnikov aveva cercato di evitare in ogni modo possibile, ciò che lo aveva frustrato, infastidito, sbalordito e che aveva tentato di eliminare dalla propria vita in ogni modo, torna alla fine a reclamare prepotentemente quanto perduto. Raskòlnikov non si completa con l'omicidio ma con l'amore, verso un altro reietto della società, una giovanissima prostituta. Quello che i due infatti condividono è la stessa pena, lo stesso sacrificio di una vita votata al mantenimento dei propri cari, nonostante i mezzi per farlo. Due personaggi che, allontanati da tutti, hanno saputo trovare nell'altro l'accettazione di se stessi e quindi l'inizio di una più profonda redenzione.

"E perché la mia azione sembra loro tanto mostruosa?", diceva a se stesso. "Perché è un delitto? Che significa la parola delitto? La mia coscienza è tranquilla. Certo, è stato commesso un atto illecito, è stata violata la lettera della legge e versato del sangue; ebbene, per questa lettera della legge, prendetevi la mia testa... e non se ne parli più! Certo, in questo senso, anche molti benefattori dell'umanità, che non hanno ereditato il potere, ma che se ne sono impossessati, avrebbero dovuto salire il patibolo fin dai loro primi passi. Ma quegli uomini non si son fermati, e perciò avevano ragione, io invece non ho saputo proseguire, e perciò non avevo il diritto di fare il passo che ho fatto."

La penna di Dostoevskij ferisce più della spada. Leggere Delitto e castigo fa precipitare giù nel tunnel torbido e oscuro dell'animo umano; mette a nudo i nostri tormenti, le nostre paure più recondite. L'autore trascende l'inchiostro sulla pagina, si materializza di fronte a noi e ci parla faccia a faccia. Questo romanzo ha saputo capirmi in un momento di crisi; di certo non mi ha mostrato la soluzione, ma mi ha accompagnato, mi ha sostenuto, non mi ha fatto sentire sola. E questo è quello che cerco in un libro: il supporto implicito, l'empatia, una mano invisibile che fuoriesca dal volume fisico e sappia accarezzarmi, lenendo le mie ferite.
















 
 
 

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